Spatial Computing, la 4a Rivoluzione informatica
Si parla spesso di rivoluzione informatica, ma a ben vedere ce ne sono state più di una negli anni. La prima è quella dei personal computer, che hanno portato nelle case di tutti noi strumenti un tempo costosissimi e limitati a pochissimi laboratori di ricerca nel mondo. A questa è seguita la rivoluzione di Internet, che ha permesso ai computer di essere interconnessi e scambiare informazioni. Il passo successivo è stato quello degli smartphone, che hanno eliminato le barriere rappresentate dall’interfaccia mouse-tastiera, permettendo anche a chi ha poca dimestichezza con gli strumenti digitali di aprirsi al nuovo mondo. La quarta rivoluzione è quella dello Spatial Computing.
Darne una definizione univoca non è banale, dal momento che, come sempre accade quando si parla di nuove tecnologie, ognuno offre una visione leggermente diversa, ma il concetto base è semplice da capire:
Spatial Computing è l’interazione con macchine che hanno percezione dello spazio e degli oggetti circostanti.
Spatial Computing, un termine ombrello che racchiude VR, AR, Mixed Reality
Le radici dello Spatial Computing vanno ricercate nei primi esperimenti di realtà virtuale, durante l’inizio degli anni 90. Era il periodo in cui apparivano sul mercato i primi costosissimi visori per la realtà virtuale, una tecnologia che è presto scomparsa dai radar del grande pubblico per poi ripresentarsi in forma più smagliante solo nel 2014.
Quindi lo Spatial Computing è la realtà virtuale? No, non proprio.
La VR è una delle tante applicazioni, sicuramente la più nota alle masse, ma non è l’unica e – forse – nemmeno quella più rappresentativa. Anche la realtà aumentata (Augmented Reality) è un esempio di Spatial Computing, ed è uno degli ambiti più promettenti: la realtà virtuale infatti tende a distaccare gli utenti dal mondo reale, li trasporta in mondi immaginari, non necessariamente connessi con quello reale nel quale viviamo. La realtà aumentata, al contrario, aggiunge elementi virtuali al mondo reale: i tanti filtri di Instagram che aggiungono cappellini, naso e orecchie da cane o gatto e altri gadget sono un esempio più noto di applicazione di questa tecnologia, ma non l’unico: Sygic l’ha introdotta nella sua app di navigazione basata su GPS.
Questi esempi apparentemente banali, nascondono una complessità non indifferente: dietro a un paio di baffi finti appiccicati su un’immagine ci sono complessi algoritmi, che sfruttano Computer Vision e Intelligenza Artificiale per distinguere i volti dal resto dell’immagine, per identificare le varie parti del viso e infine integrare in maniera credibile immagini computerizzate, fondendole con quelle reali acquisite dalla fotocamera.
Dagli esempi fatti fino a ora sembra che lo Spatial Computing sia solo uno sfizio per videogiocatori o influencer, ma non mancano implementazioni più serie. Un esempio è quello di TeamViewer Pilot, un’applicazione che viene utilizzata per l’assistenza remota e che durante il lockdown è diventata fondamentale: invece di far intervenire il tecnico sul posto per un problema alla caldaia, tramite TeamViewer Pilot si può contattare l’assistenza, mostrare agli esperti il problema tramite la fotocamera dello smarpthone e questi potranno dare le indicazioni necessarie a risolvere il problema, evidenziando anche sullo schermo i comandi su cui agire. Non un banale segno su un’immagine statica, ma veri e propri indicatori 3D perfettamente integrati nel “mondo reale”, che rimangono “ancorati” all’oggetto anche quando ci si muove. Addirittura, segnalando la posizione dell’oggetto anche quando non più visibile, magari perché coperto da una porta.
AR Remote Assistance – Source: TeamView Pilot
HARDWARE PER LO SPATIAL COMPUTING: LO SMARTPHONE È SOLO L’INIZIOLo smarpthone è un ottimo punto di ingresso per la realtà aumentata e le applicazioni di Spatial Computing: è economico, facile da usare e ce l’hanno tutti. Non è però lo strumento ideale, soprattutto per casi d’uso meno ludici e più legati al business. Probabilmente non lo saranno nemmeno i visori di realtà virtuale, tipo Oculus o Vive, che pur molto validi dal punto di vista tecnologico estraniano l’utente dalla realtà, catapultandolo in un mondo fittizio. Saranno invece gli indossabili a fare la differenza: se i Google Glass non hanno sfondato (sono usciti troppo presto ed erano troppo immaturi), HoloLens 2 di Microsoft si sta diffondendo molto in alcuni settori, e altre aziende hanno già lanciato sul mercato occhiali meno sofisticati, ma non meno utili per supportare tecnici e ingegneri sul campo.
La rivoluzione è solo all’inizio, in ogni caso, e nei prossimi anni vedremo sviluppi che sino a poco tempo fa sarebbero stati inimmaginabili: secondo gli analisti di ReportLinker, nel 2025 questo mercato varrà più di 333 miliardi di dollari, con una crescita CAGR del 50,6%.
L’evoluzione dello Spatial Computing: assistenza remota, digital twin e applicazioni per il mondo business
Oggi le applicazioni di Spatial Computing più diffuse solo legate all’ambito consumer, ma a breve si sposteranno verso il settore business. Come spesso accade, è il consumer il cavallo di troia che permette lo sviluppo di nuove tecnologie, che poi vengono adottate in altri settori, con logiche differenti. Nei prossimi anni c’è da aspettarsi un numero sempre maggiore di app legate a questa tematica, app che non si appoggeranno a comuni smartphone, ma a dispositivi più adatti a casi d’uso aziendali, come per esempio HoloLens 2 di Microsoft.
Le sperimentazioni sono già partite da tempo, anche in Italia: è il caso del nuovo Ponte di Genova (il San Giorgio, che sostituisce il tristemente famoso Morandi), che è stato dotato di una fitta rete di sensori per la sua manutenzione. Sensori i cui dati andranno ad alimentare il gemello digitale del ponte stesso, così da rendere la sua manutenzione più semplice ed efficace. Gli operai che si occuperanno della manutenzione utilizzeranno proprio dispositivi di realtà aumentata per orientarsi lungo la struttura e raggiungere rapidamente le zone che necessitano di lavori.
Non è finita qui: la diffusione di robot, soprattutto AGV (Automated Guided Vehicle), non potrà che spingere la ricerca in ambito Spatial Computing, per rendere sempre più efficienti e sicure le operazioni di movimentazione merci all’interno dei grandi centri di logistica, come quelli di Amazon, dove “automazione” è la parola d’ordine. Ricerca che interesserà l’hardware, con visori sempre meno intrusivi e più “naturali” da indossare, ma soprattutto il software, che è il vero motore della rivoluzione.
Amazon Robots – (c) Matt Simon
Proprio il software rappresenterà la vera sfida: oggi per un’azienda acquistare un visore per abilitare scenari di AR è facile, così come dotarsi di robot, ma la complessità sta nel realizzare applicazioni personalizzate in grado di sfruttarne le capacità nei vari scenari di utilizzo. Saranno necessari anche strumenti nuovi per costruire questa nuova generazione di applicazioni.